mercoledì 15 giugno 2016

Globalizzazione, virtualizzazione, lavoro


Ho letto recentemente scritti di Leonardo Becchetti, Luigino Bruni, Pietro Ichino, Stefano Quintarelli (e di Papa Francesco!)  e c'è una cosa che mi disturba.

Credo di aver chiaro quali sono i problemi di natura economica che attanagliano la società del "tecnocene"; e mi fa piacere che, finalmente, inquinamento e effetto serra siano una quasi unanime preoccupazione, dopo un paio di decenni di ottuso negazionismo. 
Ma sul piano sociale, e strettamente su quello del lavoro? Dopo la società del benessere, quella imminente sembra piuttosto essere la società del malessere.

Senza fare catastrofismo: i problemi bisogna conoscerli per affrontarli, altrimenti ci si fa travolgere. I politici prendono iniziative sulla pancia degli elettori ed è pia utopia pensare che si suicidino elettoralmente affrontando problemi di cui nessuno (ancora) si interessa (con le dovute, ma rare, eccezioni). I giornalisti ho l'impressione che... idem (con le medesime eccezioni). 

Arrivo al punto, che può dipendere benissimo da una eccessiva semplificazione o da un mio limite di comprensione dell'economia, che sembra una (non) scienza impazzita, eppure... eppure...  e senza luddismo...

Prima premessa: il lavoro è stato abbandonato al mercato come se fosse un qualunque altro fattore di produzione, e il triangolo attrezzature-lavoro-capitale sta perdendo una dimensione. Rendendo di fatto dominante il capitale, con la conseguenza che non c'è più economia ma solo finanza, e non ci sono più imprenditori, ma solo banchieri, nella stanza dei bottoni. 
Preziosi i richiami del Papa sulla dignità del lavoro, ma ora come ora sono considerati da tutti pura utopia, no? 
Comunque, se su questa premessa non si è d'accordo, è inutile proseguire, bisogna cambiare tavolo.

Seconda premessa: la crescita della tecnologia è esponenziale - almeno finora - e oggi è definibile esplosiva. Così lo è l'efficienza della produzione. L'economia finora e stata supportata dal consumismo, che ha chiesto più beni a una industria che ha, a sua volta, chiesto più strumenti  di produzione creando in ultima analisi ulteriore fabbisogno di lavoro. L'innalzamento del reddito da lavoro, in un loop di feedback positivo, provoca ancora più richiesta di beni, e fino a quando la crescita del consumo è stata superiore alla crescita del'efficienza (e fin quando c'era qualcosa di materiale ancora da desiderare, in occidente) domanda e offerta di lavoro si son potute confrontare.

Terza premessa: la globalizzazione; la possibilità di trasferire istantaneamente capitale grazie alla rete; l'efficienza di produzione che rende più economico costruire una nuova fabbrica che ristrutturarne una obsoleta; la vergognosa differenza di reddito, e quindi di aspettativa, di più di metà mondo: insieme questi fattori hanno reso l'offerta di mano d'opera (anche intellettuale) di gran lunga superiore alla richiesta.

Quindi, in uno scenario con eccesso di offerta, abbandonare il lavoro alle sole regole di mercato significa (ragionando al limite) abbassare il reddito alla pura sussistenza: finché la retribuzione permette di sopravvivere, ci sarà qualcuno disposto a lavorare per quell'importo. Ed ecco nascere i working poors anche nella opulenta civiltà occidentale, e la crescita (anch'essa esponenziale?) della diseguaglianza, con un generale abbassamento dei redditi medio alti, medi e bassi. 

Ma, se c'è un limite a ciò che possono consumare pochi ricchi, si può innestare un altro feedback positivo: meno reddito » meno consumo (comunque più efficienza) » meno lavoro » meno reddito... con conseguente più disagio, più scontento, più rabbia, più delinquenza ecc ecc

ne deriva che, essendo inutile battersi contro la tecnologia (è nata con la scheggiatura della selce e da allora non ha mai perso una guerra) va cambiata questa economia (nata da pochi decenni, e da allora ha fatto diversi morti e feriti), cambiando l'offerta del lavoro. Nella mia pochezza non vedo altra strada possibile che lavorare meno, rispolverando l'obsoleto "lavorare meno, lavorare tutti", smettendo di difendere il posto di lavoro e difendendo il lavoro e la sua dignità: difendere solo il lavoro non è sufficiente. Non possiamo stare a vedere persone avere due impieghi, o lavorare 16 ore al giorno (magari per il caporalato virtuale, vogliamo parlare di chi adotta Uber come primaria fonte di reddito?)

Ora, visto che questo aspetto non è in nessuna agenda di discussione che conosco, o è limitato a salotti esclusivi o proprio non viene considerato. Direi la seconda.
Solo se entrerà nella coscienza dell'elettorato (sempre che la democrazia sopravviva) si potrà pretendere risposte politiche, ancor più difficili in quanto non ristrette alla nazione e neppure al continente. Ma comunque la soluzione non può che venire dal basso. Su le maniche.


PS: ho nominato più volte la crescita esponenziale: chi volesse chiarimenti può leggere qualcosa di scientifico oppure qualcosa di più esperienziale
Ho nominato anche feedback: non è positivo perchè dà buoni effetti: è positivo se genera instabilità, negativo se tende a stabilizzare un fenomeno.



giovedì 14 aprile 2016

Referendum, trivelle, energia e futuro.


STOP A TRIVELLE E IDEE FOSSILI MA NON BASTA PROTEGGERE LE COSTE - Avvenire

Disanima equilibrata mi sembra; ma magari è perché sono di parte (la stessa).

Quello che credo è che il segnale di credere che il petrolio già trovato (nel senso che sappiamo dov'è) sia da estrarre e bruciare prima di abbandonare l'energia fossile è suicida. Ed è in questo senso che vedo l'effetto del sì al referendum: i pozzi sui giacimenti già noti non sono da coltivare fino all'esaurimento: vanno chiusi prima. Chiuderli alla scadenza della concessione è una opportunità più importante sul piano educativo che pesante sul piano economico.

Il segnale che si dà agli investimenti è più forte dell'aspetto legislativo: puntiamo davvero sull'energia pulita e sull'efficienza energetica, o è il solito specchietto per le allodole (noi) per favorire i cacciatori, cioè chi ha investito e purtroppo ancora investe ed investirà, nel petrolio e derivati?

Si straparla di posti di lavoro: abbiamo (dati Mef) 132 piattaforme, 92 delle quali entro le 12 miglia che chiuderebbero tra il 2018 e il 2034;  44 di queste sono non operative, eufemismo per dire che ci si risparmia i costi di smantellamento (obbligatori) lasciandole dove sono a marcire. Quanta gente ci potrà lavorare (tralasciando il fatto che nel medio periodo sono sempre disponibili posti di lavoro per queste qualifiche su piattaforme d'alto mare)? Si scrivono numeri che comprendono l'indotto di costruzione, installazione e avviamento, che saranno comunque fermati (e smantellarle davvero nei prossimi 20 anni ne richiederebbe di più). Ma l'indotto lavora (spero!) anche su tecnologie più difficili, come le piattaforme galleggianti e immagino con clientela estera, non camperà certo delle piattaforme sui bassi fondali dell'adriatico.

Ma sto perdendo di vista l'aspetto più importante e voglio ritornarci: molto del petrolio che già conosciamo va lasciato dov'è. Cominciamo dal nostro.